domenica 30 maggio 2021

     Se fossi un Albero

In questo pomeriggio di quasi estate, sonnecchiando a occhi aperti, mentre la mia mente ripassava voci e immagini di profughi incontrati in questi vent'anni di lavoro insieme a loro, ho ripescato dalla memoria qualcosa che avevo letto da qualche parte e che mi aveva colpito l'anima. Provo a mescolare il racconto di vita di alcune persone delle quali ho conosciuto la storia,  assemblarle come i pezzi di un mosaico e incollarle usando quel pensiero ordinato e compiuto che si era impresso nella mia anima, in modo incedibile.

    Ricordo la storia di un ragazzino, arrivato in Italia dalla Libia, dopo aver trascorso a piedi migliaia di chilometri per fuggire dal suo paese. Mi spiegava che tutta la sua disgrazia aveva iniziato con un incendio che aveva devastato tutto. Mi aveva spiegato che quella tragedia era stata attribuita a lui dagli abitanti del luogo, perché a causa della sua poca età, non era riuscito a domare il fuoco con il quale stava bruciando le erbacce per preparare la terra ad una nuova semina.  Nell'incendio, alberi e raccolti sono stati devastati dal fuoco e in quel rogo anche lui avrebbe dovuto perire, come punizione.

"Se fossi un albero, sarei stato bruciato vivo fino a diventare cenere"

    La storia  del ragazzino del Gambia si mescola ad un'altra, questa volta lo scenario è quello di un paese devastato da un terribile genocidio: il Rwanda. La ragazza, sfuggita al massacro delle persone della sua etnia, aveva dovuto correre tanto e veloce, in piena notte, con il figlio neonato legato alle sue spalle. Gli aggressori impugnavano delle machete e dei coltelli grandi e affilati e con quelli avevano devastato tutto: alberi, case, donne, bambini, uomini. Quando non aveva più fiato per correre, si era fermata e solo allora si era accorta che suo figlio era caduto a terra mentre lei correva. Aveva provato a tornare indietro, tra gli alberi e la vegetazione alta, ma non lo aveva più trovato. 

"Se fossi un albero, gli uomini mi avrebbero potuto tagliare a pezzi e non mi sarei mai spostato dalla terra dove sono nato".

    La mente rievoca racconti di siccità e di grande carestia; di guerre e di paura. Come quella di un giovane del Niger, che dopo aver perso tutta la famiglia a seguito dei bombardamenti, viveva di stento a causa di una enorme siccità. "vagavo da un luogo all'altro alla ricerca di qualcosa da mangiare, ma trovavo solo fame e disperazione. In quell'anno abbiamo perso tutto il raccolto perché non era piovuto mai e così tutto in torno a me sembrava morto. Anch'io sembravo morto. Non so dire neppure perché mi ero messo in cammino, cercando di inseguire un letto rinsecchito di un fiume senza acqua. Avevo paura della morte anche se, dentro me, tutto sembrava già morto. 

"Se io fossi un albero, a causa della siccità, avrei potuto seccare li, nel luogo dove sono nato. Per colpa delle bombe, avrei potuto esplodere spargendo foglie e legno in cerchio, come in cerchio era prima l'ombra delle mie fronde".

    Mi soffermo con la mente al racconto di alcuni profughi che vivevano vicino al confine tra il Bangladesh e l'India. Mi raccontavano della stagione delle piogge e di come l'India aprisse le dighe per far scorre l'acqua grossa, carnale, verso il paese vicino. Per evitare di soffrire l'alluvione, lasciava che l'acqua inondasse il Bangladesh. Loro, i più poveri, vivevano lì, in quel luogo di confine, dove nessuno avrebbe voluto mai vivere e quando i fiumi traboccavano, l'acqua si portava via tutto: alberi, animali, case, persone. L'acqua che arrivava era anche il letto delle mine anti uomo, che nella zona di confine vengono "seminate" come fossero grano.  Dopo aver visto tanti morti e vissuto  tanta miseria, si erano messi in viaggio, inseguendo la strada indicata da altri per lasciarsi indietro le tragedie. 

"Se io fossi un albero, l'inondazione del mio villaggio mi avrebbe strappato alla terra dove sono nato, togliendomi il respiro e il sostento.  Mi avrebbe trascinato per chilometri, smembrandomi.  Mi sarei lasciato trascinare via verso la morte perché non avrei avuto altra scelta."

    A chi mi domanda perché questi profughi non rimangano a casa loro e perché decidono di rischiare la propria vita in viaggi terribili, passando da un luogo all'altro senza che  li venga mai riconosciuta  una degna umanità, e rischiando ogni sorta di violenza, di brutalità e di sopraffazione per il solo desiderio di  poter allungare di poco la propria esistenza, credo che la risposta possa essere quella di un giovane migrante che, durante l'udienza in Tribunale, è stato interrogato sulle ragioni per le quali aveva lasciato il suo paese di origine. Dopo un lungo silenzio che sembrava raccogliere tutte le questioni del nostro tempo, guardando il magistrato negli occhi, egli rispose:

"Perché non sono un albero. Io sono un uomo."