Oggi voglio parlare ai vostri cuori.
Di solito sono le persone che mi parlano al cuore, mi raccontano la loro storia ogni giorno, ormai da anni!Il mio compito è quello di cogliere le parole, raccogliere le loro lacrime che spesso li accompagnano nei racconti, i gesti che si sostituiscono alle parole quando, all’improvviso, inizia il deserto della loro anima. Quel deserto che è presente nella solitudine di chi non può più tradurre in parole i propri vissuti, come aveva capito anche Primo Levi.Una volta raccolto ogni uno di questi “ingredienti”, li trasformo in testo scritto, una memoria, che sarà portata in commissione per essere valutata dalle persone competenti.Sono un contenitore pieno che oggi, vuole condividere con voi questo grido che si porta dentro. Per farlo, torno un po' indietro nel tempo e mi approprio di parole già pronunciate prima e che avrebbero dovute rimanere impresse nella nostra memoria, ma che, invece, le abbiamo perse. A queste associo immagine attuali, giusto per farvi capire come il passato, purtroppo, è ancora presente.
“ Voi che vivete sicuri
Nelle vostre tiepide case,
Voi che trovate tornando a sera
Il cibo caldo e visi amici:
Considerate se questo è un uomo
Che lavora nel fango
(*oppure che si confonde con il fango o con la sabbia)
Che non conosce pace
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(Libia, 2017) |
Che lotta per un pezzo di pane
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(Libia, 2018) |
Che muore per un sì o per un no.
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(Libia, 2017 – Fotogramma - filmato di torture su un ragazzino somalo) |
Considerate se questa è una donna,
Senza capelli e senza nome
Senza più forza per ricordare
Vuoti gli occhi e freddo il grembo
Come una rana d’inverno.
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(Libia 2017, Ragazza somala torturata) |
Meditate che questo è stato: (*Meditate che questo é adesso!)
Vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
Stando in casa andando per via,
Coricandovi, alzandovi;
Ripetetele ai vostri figli.
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(Immagini del lager libico)
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O vi si sfaccia la casa,
La malattia vi impedisca,
I vostri nati torcano il viso da voi.”
(Primo Levi)
Mi
scuso per la crudeltà di queste immagini, ma purtroppo temo che non
sia più possibile parlare di quanto stia accadendo nel mondo intorno
a noi senza dare la fotografia esatta di questo nostro tempo.
Alcune
di queste immagini mi sono arrivate con l’aiuto di bravi colleghi
giornalisti africani che hanno avuto il coraggio di documentare quel
che accade in Libia ogni giorno.
Altre
immagini sono tratte da alcuni filmati che mi sono stati recapitati
da una richiesta disperata di aiuto alla quale non ho potuto
rispondere, nonostante tutti gli sforzi. Sono immagini vere. Sono
immagini di uomini e donne che si trovano in un luogo per nulla
diverso da quello in cui si è trovato, suo malgrado, Primo Levi e
altri milioni di esseri umani durante la seconda guerra mondiale.
Mi
fermo alla Libia, anche se non è il solo luogo degli orrori del
mondo di oggi. Non oso parlare di Siria, di Repubblica Centro
Africana, di Yemen e di tanti altri luoghi dove c’è la guerra.
Mi
soffermo con lo sguardo sulla Libia che si trova a circa 900 km
dall’Italia. Un niente! Nelle acque che separano l’Italia dalla
Libia sono morte più di 30 mila persone negli ultimi 10 anni. Non
sono numeri. Sono uomini, donne, bambini, uguali a tutto e per tutto
a ciascuno di noi.
Ho
voluto riprendere le parole di Primo Levi perché i racconti che
sento dai migranti passati da quell’inferno, i sopravvissuti alle
atricità, poco si distinguono da quelli dei sopravvissuti ai campi
di concentramento nazista. Sono racconti pieni di orrore che mi
impongono una riflessione profonda, ma anche un viaggio nella storia
umana.
Le
persone che incontro ogni giorno sono giovanissime! Alcune non hanno
ancora compiuto 18 anni. Quelli che arrivano qua spesso raccontano
anche la storia di coloro che non sono riusciti a sopravvivere al
lager. Sì, avete sentito bene, i campi libici sono dei lager!
“Considerate
se questo è un uomo”:
“Avevo
il corpo ricoperto di insetti, di parassiti, che mi avevano riempito
la carne di ferite. Non potevamo lavarci e facevamo i nostri bisogni
all’interno della nostra cella. Eravamo più di centro persone in
un spazio veramente angusto. Dormivamo seduti, stipati com’eravamo.
Non c’era spazio per sdraiarci.
Non
riuscivo più a lavorare per i miei carcerieri. Dovevamo togliere le
pietre, spostarle, con le nostre meni. Eravamo legati per i piedi,
due a due. Ci davano poco cibo spesso avariato e l’acqua sporca da
bere. A causa delle piaghe, degli stenti e delle torture, non
riuscivo più a mettermi in piedi. Così hanno deciso di sbarazzarsi
di me. Mi hanno fatto caricare dagli altri su un pick-up e mi hanno
buttato sulla sabbia del deserto. Avevo il viso rivolto verso il
sole, aspettavo solo di morire. In realtà ero già morto, anche se
ancora respiravo”. (tatto dalla memoria di un richiedente asilo
della Liberia)
...”che
muore per un sì o per un no”…
“nella
prigione non potevamo parlare tra noi. Dovevamo stare in silenzio
tutto il tempo. Se qualcuno si lamentava perché malato, i nostri
carcerieri entravano e ci massacravano. Avevo paura persino di
muovere le labbra. In questo contesto che è durato circa un anno,
molte persone sono impazzite! Io stesso sento ancora le grida delle
ragazze, nella cella vicino alla mia, che imploravano di non essere
violentate.” * il richiedente asilo si copre le orecchie con le
mani, abbassa la testa e piange. (tratto dalla memoria di un
richiedente asilo della Nigeria).
“Considerate
se questa è una donna,
…
Vuoti gli occhi, freddo il grembo”...
“Ci
facevano inginocchiare e mettere le mani sulla testa e poi ci
picchiavano fino a che non avevano più forza per farlo. Di giorno ci
picchiavano e di notte ci violentavano. Ci mettevano nudi, uomini,
donne, bambini e ci picchiavano. Sceglievano una di noi oppure un
maschio per servire di esempio a tutti noi altri e lo finivano
davanti ai nostri occhi. Coprivo il viso per non guardare
quell’orrore, ma mi picchiavano per obbligarmi a guardare tutto.
Svenivo.”
“Anche
i bambini erano costretti a presenziare le violenze che venivano
compiute all’interno della prigione. I bimbi iniziavano un pianto
disperato, allora sparavano sulle mura, poco sopra la loro testa, per
farli smettere di piangere.” (parte del racconto della memoria di
una richiedente asilo dell’Eritrea).
Spesso
chiedo ai richiedenti se avevano avuto speranza di uscire
dall’inferno libico. Non ho mai trovato uno solo che mi avesse
risposto di sì. Una volta una ragazza mi ha detto che la sua più
grande disperazione era pensare di morire prima dei suoi bambini.
Erano nel lager, insieme a lei. Diceva che ogni giorno e notte
cercava dentro di sé quale sarebbe stata la soluzione migliore:
Vedere morire prima i suoi figli e morire subito dopo di loro, oppure
morire prima lei e non dover soffrire con la loro morte, ma con il
terrore di cosa sarebbe accaduto poi ai piccoli senza avere almeno il
suo sguardo su di loro. L’unica cosa che non aveva mai pensato era
di poter uscirne vivi tutti quanti da quello inferno! Tutto questo è
durato più di un anno!
Questi
racconti sono la storia umana di oggi. Sono tanto attuali quanto
vecchi. Si potrebbe dire che è storia umana e basta, senza più
bisogno di una epoca precisa.
Una
giovane richiedente, bellissima, mi aveva raccontato in lacrime che
ad ogni arrivo di un nuovo carico umano nella prigione, i carcerieri
cercavano di liberare il posto “facendo spazio”tra i detenuti.
Uccidevano le ragazze incinte e quelle malate per mettere al loro
posto le nuove recluse. Quando le ho chiesto come venivano uccise le
ragazze lei mi ha detto:
“Spesso
sparavano loro dentro la cella stessa e poi ci obbligavano pulire il
loro sangue, o dovevo buttare i corpi delle vittime nella campagna,
sotto il controllo dei carnefici. Altre volte picchiavano la
prigioniera davanti a noi, fino ad ucciderla. Una volta hanno sparato
ad una ragazza che aveva con sé un bambino di un anno. L’hanno
uccisa davanti al piccolo. Abbiamo preso il bimbo in braccio. Era
disperato. Piangeva forte. Ma le guardie ci hanno strappato di mano
il piccolo. Abbiamo implorato di lasciarlo a noi, spiegando che era
soltanto un bebè, ma non hanno voluto. L’hanno portato fuori
dalla cella e poi abbiamo sentito un colpo di pistola. Non lo abbiamo
più sentito piangere.”
La
violenza alla quale sono sottoposte queste persone non è soltanto
fisica. Gli orrori a cui sono obbligati non solo a subire, ma anche a
veder subire gli altri è una delle forme più crudeli di tortura.
Quando il carnefice dice alla vittima che non deve distogliere lo
sguardo dalla violenza compiuta su altri, oppure che non deve provare
a difendersi con le mani per ripararsi dai colpi che li vengono
inflitti, infatti, sta distruggendo in questo essere umano la più
elementare delle reazioni di auto protezione. A tutti i migranti
passati dalle prigione Libiche viene applicata la tortura. La tortura
non è la violenza di per sé. E’ la violenza finalizzata ad
annullare le persone. A rendere “lo sguardo vuote e il grembo
freddo”, come sottolineava, appunto, Primo Levi.
(Katia Fitermann)