domenica 26 gennaio 2020

La Trerribile Attualità del Male


Oggi voglio parlare ai vostri cuori.

Di solito sono le persone che mi parlano al cuore, mi raccontano la loro storia ogni giorno, ormai da anni!Il mio compito è quello di cogliere le parole, raccogliere le loro lacrime che spesso li accompagnano nei racconti, i gesti che si sostituiscono alle parole quando, all’improvviso, inizia il deserto della loro anima. Quel deserto che è presente nella solitudine di chi non può più tradurre in parole i propri vissuti, come aveva capito anche Primo Levi.Una volta raccolto ogni uno di questi “ingredienti”, li trasformo in testo scritto, una memoria, che sarà portata in commissione per essere valutata dalle persone competenti.Sono un contenitore pieno che oggi, vuole condividere con voi questo grido che si porta dentro. Per farlo, torno un po' indietro nel tempo e mi approprio di parole già pronunciate prima e che avrebbero dovute rimanere impresse nella nostra memoria, ma che, invece, le abbiamo perse. A queste associo immagine attuali, giusto per farvi capire come il passato, purtroppo, è ancora presente.

“ Voi che vivete sicuri
Nelle vostre tiepide case,
Voi che trovate tornando a sera
Il cibo caldo e visi amici:
Considerate se questo è un uomo

Che lavora nel fango
(*oppure che si confonde con il fango o con la sabbia)



Che non conosce pace

(Libia, 2017)







Che lotta per un pezzo di pane

(Libia, 2018)



Che muore per un sì o per un no.


(Libia, 2017 – Fotogramma - filmato di torture su un ragazzino somalo)

































Considerate se questa è una donna,
Senza capelli e senza nome
Senza più forza per ricordare
Vuoti gli occhi e freddo il grembo
Come una rana d’inverno.



(Libia 2017, Ragazza somala torturata)

































Meditate che questo è stato: (*Meditate che questo é adesso!)

Vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
Stando in casa andando per via,
Coricandovi, alzandovi;
Ripetetele ai vostri figli.


(Immagini del lager libico)



O vi si sfaccia la casa,
La malattia vi impedisca,
I vostri nati torcano il viso da voi.”
(Primo Levi)

Mi scuso per la crudeltà di queste immagini, ma purtroppo temo che non sia più possibile parlare di quanto stia accadendo nel mondo intorno a noi senza dare la fotografia esatta di questo nostro tempo.
Alcune di queste immagini mi sono arrivate con l’aiuto di bravi colleghi giornalisti africani che hanno avuto il coraggio di documentare quel che accade in Libia ogni giorno.
Altre immagini sono tratte da alcuni filmati che mi sono stati recapitati da una richiesta disperata di aiuto alla quale non ho potuto rispondere, nonostante tutti gli sforzi. Sono immagini vere. Sono immagini di uomini e donne che si trovano in un luogo per nulla diverso da quello in cui si è trovato, suo malgrado, Primo Levi e altri milioni di esseri umani durante la seconda guerra mondiale.

Mi fermo alla Libia, anche se non è il solo luogo degli orrori del mondo di oggi. Non oso parlare di Siria, di Repubblica Centro Africana, di Yemen e di tanti altri luoghi dove c’è la guerra.
Mi soffermo con lo sguardo sulla Libia che si trova a circa 900 km dall’Italia. Un niente! Nelle acque che separano l’Italia dalla Libia sono morte più di 30 mila persone negli ultimi 10 anni. Non sono numeri. Sono uomini, donne, bambini, uguali a tutto e per tutto a ciascuno di noi.

Ho voluto riprendere le parole di Primo Levi perché i racconti che sento dai migranti passati da quell’inferno, i sopravvissuti alle atricità, poco si distinguono da quelli dei sopravvissuti ai campi di concentramento nazista. Sono racconti pieni di orrore che mi impongono una riflessione profonda, ma anche un viaggio nella storia umana.

Le persone che incontro ogni giorno sono giovanissime! Alcune non hanno ancora compiuto 18 anni. Quelli che arrivano qua spesso raccontano anche la storia di coloro che non sono riusciti a sopravvivere al lager. Sì, avete sentito bene, i campi libici sono dei lager!

“Considerate se questo è un uomo”:

“Avevo il corpo ricoperto di insetti, di parassiti, che mi avevano riempito la carne di ferite. Non potevamo lavarci e facevamo i nostri bisogni all’interno della nostra cella. Eravamo più di centro persone in un spazio veramente angusto. Dormivamo seduti, stipati com’eravamo. Non c’era spazio per sdraiarci.
Non riuscivo più a lavorare per i miei carcerieri. Dovevamo togliere le pietre, spostarle, con le nostre meni. Eravamo legati per i piedi, due a due. Ci davano poco cibo spesso avariato e l’acqua sporca da bere. A causa delle piaghe, degli stenti e delle torture, non riuscivo più a mettermi in piedi. Così hanno deciso di sbarazzarsi di me. Mi hanno fatto caricare dagli altri su un pick-up e mi hanno buttato sulla sabbia del deserto. Avevo il viso rivolto verso il sole, aspettavo solo di morire. In realtà ero già morto, anche se ancora respiravo”. (tatto dalla memoria di un richiedente asilo della Liberia)

...”che muore per un sì o per un no”…

“nella prigione non potevamo parlare tra noi. Dovevamo stare in silenzio tutto il tempo. Se qualcuno si lamentava perché malato, i nostri carcerieri entravano e ci massacravano. Avevo paura persino di muovere le labbra. In questo contesto che è durato circa un anno, molte persone sono impazzite! Io stesso sento ancora le grida delle ragazze, nella cella vicino alla mia, che imploravano di non essere violentate.” * il richiedente asilo si copre le orecchie con le mani, abbassa la testa e piange. (tratto dalla memoria di un richiedente asilo della Nigeria).

“Considerate se questa è una donna,
… Vuoti gli occhi, freddo il grembo”...

“Ci facevano inginocchiare e mettere le mani sulla testa e poi ci picchiavano fino a che non avevano più forza per farlo. Di giorno ci picchiavano e di notte ci violentavano. Ci mettevano nudi, uomini, donne, bambini e ci picchiavano. Sceglievano una di noi oppure un maschio per servire di esempio a tutti noi altri e lo finivano davanti ai nostri occhi. Coprivo il viso per non guardare quell’orrore, ma mi picchiavano per obbligarmi a guardare tutto. Svenivo.”

“Anche i bambini erano costretti a presenziare le violenze che venivano compiute all’interno della prigione. I bimbi iniziavano un pianto disperato, allora sparavano sulle mura, poco sopra la loro testa, per farli smettere di piangere.” (parte del racconto della memoria di una richiedente asilo dell’Eritrea).

Spesso chiedo ai richiedenti se avevano avuto speranza di uscire dall’inferno libico. Non ho mai trovato uno solo che mi avesse risposto di sì. Una volta una ragazza mi ha detto che la sua più grande disperazione era pensare di morire prima dei suoi bambini. Erano nel lager, insieme a lei. Diceva che ogni giorno e notte cercava dentro di sé quale sarebbe stata la soluzione migliore: Vedere morire prima i suoi figli e morire subito dopo di loro, oppure morire prima lei e non dover soffrire con la loro morte, ma con il terrore di cosa sarebbe accaduto poi ai piccoli senza avere almeno il suo sguardo su di loro. L’unica cosa che non aveva mai pensato era di poter uscirne vivi tutti quanti da quello inferno! Tutto questo è durato più di un anno!
Questi racconti sono la storia umana di oggi. Sono tanto attuali quanto vecchi. Si potrebbe dire che è storia umana e basta, senza più bisogno di una epoca precisa.

Una giovane richiedente, bellissima, mi aveva raccontato in lacrime che ad ogni arrivo di un nuovo carico umano nella prigione, i carcerieri cercavano di liberare il posto “facendo spazio”tra i detenuti. Uccidevano le ragazze incinte e quelle malate per mettere al loro posto le nuove recluse. Quando le ho chiesto come venivano uccise le ragazze lei mi ha detto:
“Spesso sparavano loro dentro la cella stessa e poi ci obbligavano pulire il loro sangue, o dovevo buttare i corpi delle vittime nella campagna, sotto il controllo dei carnefici. Altre volte picchiavano la prigioniera davanti a noi, fino ad ucciderla. Una volta hanno sparato ad una ragazza che aveva con sé un bambino di un anno. L’hanno uccisa davanti al piccolo. Abbiamo preso il bimbo in braccio. Era disperato. Piangeva forte. Ma le guardie ci hanno strappato di mano il piccolo. Abbiamo implorato di lasciarlo a noi, spiegando che era soltanto un bebè, ma non hanno voluto. L’hanno portato fuori dalla cella e poi abbiamo sentito un colpo di pistola. Non lo abbiamo più sentito piangere.”

La violenza alla quale sono sottoposte queste persone non è soltanto fisica. Gli orrori a cui sono obbligati non solo a subire, ma anche a veder subire gli altri è una delle forme più crudeli di tortura. Quando il carnefice dice alla vittima che non deve distogliere lo sguardo dalla violenza compiuta su altri, oppure che non deve provare a difendersi con le mani per ripararsi dai colpi che li vengono inflitti, infatti, sta distruggendo in questo essere umano la più elementare delle reazioni di auto protezione. A tutti i migranti passati dalle prigione Libiche viene applicata la tortura. La tortura non è la violenza di per sé. E’ la violenza finalizzata ad annullare le persone. A rendere “lo sguardo vuote e il grembo freddo”, come sottolineava, appunto, Primo Levi.
(Katia Fitermann)









Nessun commento:

Posta un commento